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Capitalismo e (dis)ordine mondiale?

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L’idea di un declino dell’Impero Usa fu  formulata dai sociologi (storici) statunitensi, Eric Hobsbawm e Immanuel Wallerstein (Polanyi): un pensiero  tranciante che richiama molto il   crollismo capitalistico di tutto il Novecento, sviluppato però in questo caso da un paese dominante che  agisce sui doppi binari (livelli) di una politica di potenza ed in grado perciò di rilasciare continue sorprese prima del riconoscimento di un suo iniziale declino.

Secondo tali autori,  negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si  delineò la fase conclusiva di una “secolo breve” (1914-1991); il cui collasso finale dei regimi comunisti  accelerò  la fine di una stabilità internazionale,  e con essa  gli Stati nazionali, compresa la  differenza, tra  “Liberalismo” e  “Illuminismo”, che aveva campeggiato, con identificazioni statali il vecchio continente europeo, per circa tre secoli a partire dallo storico armistizio europeo di Westfalia del 1648:

Un’ipotesi ripresa  da Giovanni Arrighi come si evince nella raccolta dei suoi saggi raccolti in un libro postumo (a cura di Cesarale-Pianta), dal titolo“CAPITALISMO e (DIS)ORDINE MONDIALE”, ed., Il Manifesto Libri,2010; un insieme di scritti (tra i tanti)  frutto di una lunga permanenza in Usa dell’autore, dopo aver peregrinato tra università africane e l’università di sociologia di Trento dei primi anni settanta, prima di arrivare al periodo americano, alla “State University” di New York e al “Fernand Braudel Center” (1979)

Le sue indagini sui “Cicli sistemici di Accumulazione” e “Transizioni Egemoniche”,  con l’approssimarsi dell’inizio del nuovo secolo, si fecero improvvisamente cupe e gravide di incertezze   circa le prospettive storiche del futuro del Terzo Millennio, sempre avvolto secondo l’autore, da una “nebbia totale”; un chiaro richiamo  alla centralità del “Capitale Finanziario”, che sovrasta e copre ogni crisi del capitalismo che ha saputo rappresentare e tenere  un insieme ideologico dell’intero Novecento, da cui si sono liberati tutti  gli (ister)ismi  liberali ed in particolare quelli  marxisti che si sono   avvalsi,  per circa un secolo, della nota formula del “Imperialismo come supremo stadio del capitalismo”.

Una conferma ulteriore, della finanziarizzazione capitalistica arrivò con la cosiddetta   “Globalizzazione”,  tanto pubblicizzata, nei suoi epigoni democratici del “villaggio globale”, quanto vituperata da tutti i no-global, entrambi concordi sulle cause fondamentali della crisi dell’eccesso di finanza dei rapporti capitalisti; sfuggiva la motivazione principale, di quel surplus  finanziario, teso a nascondere un reale rapporto di dominio globale, come avvenne con l’emersione del  monocentrismo Usa, facendo seguito all’implosione dell’Urss (1989): un quindicennio di dominio globale Usa, prima  dell’ ingresso del multipolarismo (2002-03).

Non senza dimenticare come l’idea forza della globalizzazione  si sia potuta  incarnare nelle imprese definite “transnazionali” perché prive (si diceva) di una matrice di interesse nazionale; un viatico fondamentale ad una pervasività finanziaria che si  sviluppò con  nascondimento (apparente) di una corposa concretezza di interessi nazionali delle americanissime imprese (Usa) che agirono con caratterizzazioni egemoniche (mondiali), sotto le coperture finanziarie, delle imprese sub–dominanti (agenti mandatari) collocate nei paesi dominati.

Oltre ad un  dejà vu ossessivo che identificò, sempre, il Capitalismo finanziario, come la causa di ogni crisi capitalistica: un  semplice  rapporto di dominio nascosto e trasferito sull’economico e che costrinse il dominato a fare i conti (della serva), entro i vincoli economici assegnatigli; conseguenza  fondamentale di  una limitazione di autonomia per ciascun paese e finanche di un pensiero politico  depauperato dell’agire politico, in una politica  esangue e senza vita  che, come uno spettro, è capace ancora di irretire i popoli beoti irretiti dai luoghi  comuni di un  crollo del   capitalismo, con un vigore evocativo  simile ad uno scenario scientifico.

L’interesse dell’autore è rivolto principalmente alla crisi del “Washington consensus“ causa fondamentale  dell’emergente  Cina che ha saputo imporre un cambiamento fondamentale nelle relazioni tra il “Nord e il Sud del mondo”; un cambiamento di direzione imposto all’establishment americano, che intende reagire come paese dominante, secondo un proprio asse strategico dotato di conniventi convenienze economiche, perché in grado di   nascondere le  più profonde ragioni di una politica di potenza  in crisi di egemonia, nei cui confronti  l’economi(c)a rappresenta l’unico carburante valido  per una politica in grado di mettere in movimento “l’insieme di un complesso strategico”.

E’  su questa crisi di una declinante egemonia che si  è innestata una corsa strategica Usa mettendo  benzina sul fuoco  della Centralità Finanziaria, ormai  alle corde  dal multipolarismo che avanza, e  da un armamentario  ideologico del liberalismo-marxismo in disuso, alle spalle del trascorso Novecento;  e con il sostegno  ideologico di una  ricorsività  della finanziarizzazione del capitale, formulata dallo storico Fernand Braudel come  “caratteristica  ricorrente del capitalismo storico fin dal sedicesimo storico”, che ha dato la stura ad  una summa di  pensiero  “dell’Economia Mondo”(1) ;  e ripresa e fatta proprio  da Arrighi: “ l’accumulazione di capitale [si realizza] attraverso la compravendita delle merci ….In alcuni periodi anche lunghi il capitalismo sembrò specializzarsi come nel diciannovesimo secolo, quando esso si lanciò in modo tanto spettacolare nell’immensa novità dell’industria. Questa specializzazione indusse molti a presentare l’industria come la realizzazione ultima che avrebbe  conferito al  capitalismo il suo vero volto. Ma si trattava di una prospettiva di breve termine: dopo il primo boom del macchinismo, il capitalismo più elevato tornò all’eclettismo ad una specie di indivisibilità, come se lo specifico vantaggio di trovarsi in quei punti dominanti consistesse proprio nel non irrigidirsi in una sola scelta: nell’essere eminentemente adattabile e quindi non specializzato”.

E  l’emergere dell’idea che investire in unità produttive significa “assicurarsi una flessibilità e una libertà di scelta ancora maggiori in futuro…..In altre parole, le agenzie capitalistiche “preferiscono” la liquidità, e una parte insolitamente elevata delle loro disponibilità finanziarie tende a rimanere in forma liquida”.

Le espansioni finanziarie sono state (secondo l’autore) “ un aspetto integrante delle crisi egemoniche passate e presenti, nonché della loro trasformazione in crolli egemonici. Ma il loro impatto sulla tendenza delle crisi a risolversi in crolli egemonici è ambivalente. Per un verso, infatti, esse tengono la crisi sotto controllo inflazionando temporaneamente il potere dello stato egemonico in declino…  Questa reflazione permette allo Stato a egemonia declinante di contenere, almeno per un po’, le forze che sfidano la prosecuzione del suo dominio. Per un altro verso, però, le espansioni finanziarie consolidano queste ultime, ampliando e approfondendo la concorrenza tra Stati e tra imprese e i conflitti sociali, e riallocando il capitale verso strutture emergenti che promettono maggiore sicurezza o rendimenti più alti di quelli garantiti dalla struttura dominante”.

E’ proprio da qui  che si può evincere il doppio binario, sopra indicato,  dello strumento finanziario dello Stato Usa, che divide et impera le forze concorrenti; una (di)visione realizzata da una politica strategica realmente conflittuale, il cui flusso finanziario è soltanto l’aspetto di un più ampio conflitto strategico; come  altrettanto ampio è  lo spettro di dominio della potenza egemonica di un paese che intende collocarsi  entro uno spazio  geopolitico, compreso quello militare.

Il   gioco delle apparenze, svolto dal paese dominante Usa, si realizza con una indubbia efficacia persuasiva: una  duplicazione infinita  del finanziario che si svolge senza alcun riferimento delle economie reali, che continuano a sussistere in immagini riflesse dei  valori finanziari, come  in una camera di  specchi; un gioco delle apparenze che ha portato a uno  stato confusionale i  dominati europei, così come del resto  si è lasciato avvolgere il sistema politico  italiano, che, tra destra-sinistra, spazia dal risibile pensiero mercatista tremontiano, al mercato sociale e/o socialismo del mercato della sinistra, ai no global, alla finanza etica…, e “chi più ne ha più ne metta”.

La ricerca  sociale prospettata da Arrighi, contiene, come  gran parte del  mondo accademico, l’idea statica ‘del moto apparente del sole (intorno alla terra); una sorta di ‘pensiero alto’ che  tiene costantemente sotto osservazione  una ordinaria realtà empirica a copertura di un sottostante movimento tellurico, che trasforma, continuamente, la  superficie dell’ oggetto dell’analisi posta in essere.

Le stesse fissità di pensiero sui  macrosistemi economici-finanziari, simili a ombelichi del  mondo, hanno prodotto una spessa coltre ideologica al riparo degli ‘squarci di verità’ che hanno saputo  imporre i grandi pensatori da Marx, a Husserl…., nel disvelamento delle ideologie, che  imbragavano la realtà entro le apparenze dei dominanti.

Una ricerca sociale che possa essere considerata con una sufficiente scientificità, non può  avere come riferimento  una realtà  statica ( e/o in equilibrio), quanto considerare che ogni mutamento ( sviluppo) è rottura di  ogni  precedente (apparente) equilibrio, con una  posizione da occupare in progressione di un movimento (conflitto) in costante squilibrio (simile alle analisi schumpteriane dei processi innovativi dei prodotti derivati dalla rottura del flusso circolare ).

Oltre alla comprensione che  lo svelamento  dello squilibrio è il riconoscimento   di una realtà in movimento come   presupposto fondante  di ogni conflitto strategico: i cambiamenti di posizione diventano  parte integrante  di una stabilizzazione di una nuova  formazione economica-sociale ( pars costruens).        –

1)    Il termine “Economia Mondo” fu usato per la prima volta da F. Braudel (ricalcando le analisi di F. Rorig del 1933) e rappresenta un insieme di aree geografiche con diversa specializzazione produttiva e con diversi rapporti di produzione, collegati da relazioni commerciali; una divisione spaziale con un centro ed una periferia collegata secondo una dilatazione di scambi commerciali in  una forma di progressiva subordinazione economica.

GIANNI DUCHINI dicembre ‘10


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